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De Marco: «In questi volti il senso di nuove resistenze»

Aquileia: il fotografo e scrittore dedica l’esposizione all’artista partigiano Cid «e a tutti quei ragazzi sconosciuti o quasi, che ebbero la forza di dire no»

di Danilo De Marco

Ecco in anteprima il testo che il fotografo e scrittore Danilo De Marco leggerà domenica ad Aquileia per introdurre i visitatori alla mostra dedicata ai volti dei partigiani.

Chi mi conosce sa bene che non amo parlare né tantomeno scrivere di mie esposizioni fotografiche. Non amo parlare perché credo che ognuno di noi abbia un suo strumento privilegiato per comunicare meglio possibile. E il mio strumento, pare, si dice, sia la fotografia… E suppongo che basti e avanzi. Inoltre in queste occasioni dove il senso è anche altro, c’è sempre il rischio che raramente si riesce ad evitare… di commemorare, e commemorando perdere di vista il vero e profondo senso di vite partigiane stroncate in gioventú, o resistenze, forse meglio dire esistenze, che continuano a resistere. Commemorare dicevo: cosa che ai politici – ahimè la politica – al politico viene anche parecchio bene, questo del commemorare: certo senza rischiare proprio un bel nulla…e cosí tra amnesie e commemorazioni non si fa altro che seppellire nuovamente quelle giovani resistenze e oramai anche meno giovani esistenze.

Ma se oggi squarcio questo mio ostinato silenzio mettendo in fila poche e temute parole, è perché poco piú di un mese fa ci ha lasciato un partigiano. Un partigiano per me speciale: un partigiano a vita, come ha scritto di lui Erri De Luca. Un partigiano a vita che ha segnato anche la mia vita; una sorta di maestro… diventato tale certamente a sua insaputa e contro la sua volontà… Non amava essere un maestro: diceva che in ogni essere vivente esistono già delle qualità innate e queste qualità interagendo rendono la comunicazione piú sincera e il mondo piú convivibile. Usava insomma quella vecchia arte dell’estrazione, la maieutica: l’arte della levatrice che toglie e porta alla luce quello che già c’è dentro. Sergio Cocetta nome di battaglia El Cid Campeador che per brevità guerrigliera strategicamente bisogna essere rapidi mi raccontava, ridusse a Cid; e che ancora dopo il 1948, in clandestinità, si tramutò in Andrea Calano nel suo esilio Cecoslovacco. Esilio forzato per le solite misteriose storie partigiane che a poco ben disposte autorità civili e militari non andavano a genio.

Per essere onesto con me stesso e con Cid, devo dire a tutti che in questo momento sto violando una solenne promessa fattagli: quella di non parlare mai di lui. Quando iniziavamo a parlare della lotta partigiana, ma non solo, il plurale era sempre d’obbligo. D’obbligo era il Noi…Per questo Cid è sempre stato anche tanti altri, e ora ricordandolo, ricordo come lui voleva, tutte quelle esistenze, quei talenti, tutti quegli Altri/Noi… (per primi certo quei ragazzi – quei frutas – le cui vite sono state stroncate nella lotta di Liberazione… anche per quelli che le mani le tenevano in tasca), ma anche per tutti quelli che dopo quel 25 aprile si sono ritrovati spaesati nella rete di un mondo che non volevano. Essere sopravvissuti – diceva Cid – è già difficile, ma la colpa maggiore che abbiamo è che non volevamo questo. Per questo oggi disobbedisco alla promessa fattagli: sapendo anche che disobbedire non vuol dire tradire. Tutt’altro.

Cid è stato, ed è, per quello che ha lasciato, un uomo in rivolta. Non si è mai pacificato con nessun potere costituito. Insorgere, combattere ogni giorno la sua personalissima battaglia, era per lui l’unica possibilità di stare al mondo. Sapendo bene quanto sono pericolose coerenza ed etica prese come utopia totalitaria. La libertà, mi diceva spesso, non è libera; la libertà è una combinazione di traiettorie e di portamenti esteriori prima ancora di essere una disposizione interiore. Una pratica dell’esistere. Abbiamo perduto troppi Cid in questi lunghi anni, messi da parte anche da una politica/manageriale che sempre piú assomiglia a un prodotto finanziario, e che si è ben coniugata con banalità e insensibilità nel quotidiano e vertigine d’avidità che accerchia, confondendole, tante vite, facendo cosí abbandonare il valore della solidarietà e lasciandoci tutti piú soli.

Molti anni fa, troppi per ricordare quanti, in una di quelle lunghe nottate dove attendevamo l’alba e che passavamo cercando di capire – soprattutto per capire cosa non andava in noi stessi – ricordo perfettamente che Cid farfugliò una frase che subito inghiottí quasi a vergognarsene… dicendo a se stesso prima che a me: «Non ne usciremo piú, si stanno preparando le pensioni e si stanno costruendo le ville… non ne usciremo piú». Questo senza mai perdere la speranza che la politica fosse costruzione, coralità, significato collettivo – il numero di vite che entrano nella nostra ogni giorno è incalcolabile – diceva, e di conseguenza interpretazione critica della struttura di una realtà storica per indicarne assieme la possibilità altre. Politica come entusiasmo. Politica come vita appassionata; sudore, materia e lavoro creativo.

Stando con lui e con il suo proprio – da lui però non accettato – disincanto: seguendolo nei suoi discorsi, mi sembrava d’scoltare le parole di un grande intellettuale francese, Roland Barthes: «Subisco senza adattarmi, persevero senza abituarmi: sempre sconsolato, mai scoraggiato».

Sergio mi ricordava spesso di un giovanissimo partigiano, Vento, di cui teneva stretto il volto nei suoi occhi. Quei suoi occhi di azzurro incantato. Troppo giovane Vento; forse 15 o 16 anni, per andare in guerra… ma c’è forse un’età per la guerra? Vento fu condannato alla fucilazione da una giustizia partigiana troppo grande per lui, ma anche per chi quella giustizia voleva praticare. Condannato a morte a 15 o 16 anni per essersi addormentato durante il suo turno di guardia.

Il commissario Cid – 17 o 18 anni – riuscí a trovare gli argomenti per convincere tutti che quello che volevano fare era ingiusto, e a salvarlo da una fucilazione che, spero, gridi la sua ingiustizia oggi a noi tutti. Vento se ne andò a morire poco dopo. Sempre il primo davanti a tutti, trascinando i compagni. Lui che aveva solo 15 o 16 anni e che non sapeva cos’era la morte. Non dimenticare quel ragazzo che Cid portava nella profondità di quei suoi occhi incantati. Questo gli è rimasto come impegno.

Posso dire che in gioventú ho avuto la fortuna di essere stato a bottega da un artigiano, un artigiano del pensiero e della parola, assieme alla contemplazione manuale che era il suo essere scultore (quelle botteghe che in modo totalmente sconsiderato abbiamo distrutto), e in quella meta-bottega ho appreso a dare forma alla mia vita e ad avere un’idea del mondo. Un’idea del mondo che anche i piú giovani dei partigiani – accadeva di diventare partigiani anche perché non si poteva stare dall’altra parte – il fascismo – un’idea del mondo dicevo che quei fruts – quei ragazzi – hanno appreso rapidamente. Una grande bottega a cielo aperto che ha plasmato e dato forma a migliaia di vite, di donne e di uomini con nomi rimasti in maggior parte sconosciuti, che l’Italia del dopoguerra non ha trovato altro di meglio che mettere in soffitta o spedire oltre frontiera: chi migrato e venduto, chi fuggito, chi riparato e chi perduto per sempre in qualche Gulag siberiano.

Questa mostra, questo mio lavoro è dedicato a tutti quei ragazzi sconosciuti o quasi, di cui parlavamo con Sergio nelle lunghe notti a lume di candela, che hanno allora disobbedito a un ordine ingiusto; a quelli che disobbediscono oggi e a quelli che… spero, trovino la forza, le ragioni, le condizioni per ritrovare lo straordinario potere individuale che è quello di dire NO! Rendere cosí legittima la rivolta che porta a nutrire un grande entusiasmo nell’essere uomini, e di conseguenza un profondo rispetto della natura e del mondo. Riprendere quell’idea di solidarietà che aveva visto uniti i resistenti di tutta Europa, legittimando allora la rivolta, per ripensare quell’idea di un’Europa dei popoli che abbiamo perduto. Assieme essere Partigiani di un’altra Europa, di un’Europa portatrice di quel “Minimo di civiltà” che serve come fragile, ma fondamentale piattaforma comune.

Verso la metà del 1600 Baruk Spinoza filosofo ostracizzato e gigantesco messo al bando da tutti scriveva: «Fino a che il pensiero è libero e vitale, niente è compromesso; quando finisce di esserlo, tutte le altre oppressioni sono possibili e già realizzate, qualsiasi azione diventa colpevole, tutte le vite minacciate». La tirannia insomma, che cambia abito, quella categoria politica che credevamo estinta. Forse un giorno… forse un giorno negli occhi di un altro troverò i suoi occhi scriveva Cesare Pavese. E per noi tutti saranno gli occhi di Vento.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

08 aprile 2014
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