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Volti di due capitali antiche

Al Museo archeologico un dialogo tra universi multiculturali uniti dal Mare Nostrum

di MARIANNA ACCERBONI

Nella seconda metà del II secolo d.C. era una dama autorevole nella sfarzosa città di Palmira e forse frequentava la corte fastosa e illuminata di Zenobia, la regina guerriera che, bella, intelligente e istruita, osò contrapporsi all’Impero romano. Ma oggi quel raffinato rilievo funerario femminile in calcare grigio sembra un’apparizione, racchiusa nel controluce di una delle stanze blindate dal cristallo, che ospitano fino al 3 ottobre al Museo Archeologico Nazionale, la mostra “Volti di Palmira ad Aquileia”.

Preziosa testimonianza della vita nell’importante città siriana nei secoli d’oro, che toccarono l’apogeo proprio con l’abile Zenobia. Allora il grande centro carovaniero, era poeticamente chiamato, per questa sua funzione, la Sposa del Deserto. Un sogno storico ed estetico, spezzato dall’Isis, che lo scorso hanno l’ha in gran parte distrutta.

Aquileia e Palmira sono a confronto in mostra: antichi universi multiculturali, apparentemente dissimili, in realtà simbolicamente coesi grazie al Mare Nostrum, il Mediterraneo. Bacino di scambi e traslazioni di genti, idiomi, merci e idee.

Anche Aquileia in tempi lontanissimi, nel 452 d.C, subì la devastazione di Attila, ma da un po’ di anni è divenuta più attrattiva, suscitando maggiormente l’interesse internazionale, grazie alla Fondazione che porta il suo nome (in questi giorni eccellenza italiana per l’attribuzione del Premio Cultura di Gestione-edizione speciale per l’Impresa Culturale) e che ha realizzato la mostra in collaborazione con il Polo museale Fvg.

È la terza tappa del progetto “Archeologia ferita”, preceduta dalla rassegna sui tesori del Museo tunisino del Bardo, anch’esso colpito dall’Isis, e da quella sui reperti del Museo Nazionale archeologico di Teheran e di Persepoli, bruciata da Alessandro Magno nel 330 a.C. Un percorso storico-artistico ideato dal presidente della Fondazione, Antonio Zanardi Landi, ex ambasciatore di larghe vedute e ampi contatti, che culmina oggi in questa riuscita liaison tra le due antiche capitali del commercio e della trasmigrazione di idee, contatti, linguaggi, canoni artistici e narrativi. Apparentate anche dai nemici ai confini, i barbari per Aquileia, i Persiani per Palmira.

Entri in mostra e ti senti osservato dagli sguardi criptici che caratterizzano i ritratti scultorei e i rilievi dedicati ai più prestigiosi rappresentanti palmireni della “haute” commerciale e imprenditoriale dei primi tre secoli dopo Cristo, idealmente “introdotti” in mostra dalle effigi di cittadini aquileiesi di medio lignaggio vissuti nella stessa epoca, che nelle eleganti vetrine espositive precedono appunto gli ospiti di un passo.

Anche se in verità tutto avviene quasi nell’aldilà. Perché sia i sedici reperti originali di Palmira (provenienti da prestigiosi musei italiani e stranieri) che gli otto pezzi del Museo Archeologico Nazionale di Aquileia, sono rilievi e stele funerari.

Stilisticamente l’impatto tra i cittadini di Palmira e quelli di Aquileia è testimone di due filosofie di vita. Se negli abitanti di quest’ultima, uno dei più grandi e floridi centri politici, amministrativi e commerciali dell’Impero romano, fondato nel 181 a.C, s’intuisce il concetto di praticità e sobrietà, che contraddistinse in generale l’abbigliamento e i costumi, nonché il pensiero, negli anni migliori dell’antica Roma, nelle effigi dei palmireni si avverte invece una raffinatezza e una bellezza quasi estrema, che sarebbe piaciuta a D’Annunzio e a Mariano Fortuny, attivi quando l’estetismo e l’arte della loro civiltà erano giunti all’acme, un po’ prima della decadenza deflagrata nella Grande Guerra. Come avvenne appunto con il linguaggio ellenistico, che concluse il grande arco della classicità e al quale i reperti palmireni appartengono.

Molti di questi, con il ritratto dei defunti e iscrizioni in aramaico, scolpiti sulle lastre di chiusura dei loculi funerari o provenienti dai sarcofaghi, testimoniano spesso il celebre universo femminile della città siriana: donne abbigliate con abiti locali orientali finemente ornati da diademi in metallo prezioso decorato a sbalzo e impreziositi da numerosi e lussuosi gioielli oppure da parure di tradizione locale o mista, orecchini di gusto occidentale romano e abbigliamento alla greca, composto di tunica e mantello. Per lasciare di sé un ricordo elegante, racchiuso in tombe di famiglia realizzate in edifici a torre, ipogei o, più tardi, a tempio. E grazie a gioielli citati anche da Baudelaire ne “I fiori del Male”, in un’epoca in cui l’Esotismo era di gran moda.

Affascinante corollario della mostra è, nei nuovi spazi della Domus e Palazzo episcopale in piazza Capitolo, l’esposizione di una ventina d’immagini molto intense dedicate dal grande fotografo friulano Elio Ciol alle rovine di Palmira prima della distruzione, collocate in un contesto di grande appeal e contenuto che, in virtù di un sapiente gioco architettonico, consente di osservare anche la sovrapposizione di livelli pavimentali musivi di varie epoche.

E, uscendo, in piazza Capitolo ci attende ancora una sorpresa, che raccorda simbolicamente l’antichità al contemporaneo: la grande, poetica scultura dell’artista siriano Elias Naman, dedicato alla grande Zenobia e prestato dalla Danieli.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

08 luglio 2017

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