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    La lezione di Aquileia per il futuro del Friuli

    di Tommaso Cerno

    Scrive Strabone nella sua “Geografia” che Aquileia serve da emporio per quei popoli illirici che abitano lungo l’Istro. «Essi vengono a rifornirsi di prodotti provenienti dal mare, come il vino che mettono in botti di legno e l’olio, mentre la gente della zona viene ad acquistare schiavi, bestiame e pelli». Basta andare al Porto fluviale, passeggiare lungo il dosso che costeggia l’antico molo e chiudere gli occhi: lo vedi lì, quel Friuli davvero “crocevia” di popoli e culture distribuire merci nel Nord e nell’Est dell’Europa.

    Una suggestione? Macchè. Sembrano le parole che da anni sentiamo ripetere in tutti i convegni, in tutti i discorsi della Confindustria, in tutte le campagne elettorali della politica nostrana. Oggi si dice “polo logistico”, si dice “Alta velocità”, si parla di “asse viario”, di “corridoio europeo”, ma stringi stringi stiamo parlando della stessa cosa. Stiamo dicendo che l’Aquileia di oggi è tutta la Regione autonoma Friuli Venezia Giulia e che solo se si metterà insieme, se studierà una strategia complessiva che supera i campanili e le frammentazioni, saremo in grado di avere un futuro e di tornare ricchi. Altrimenti l’incendio di Attila, che oggi si chiama “globalizzazione” e “marginalizzazione”, dilagherà e si mangerà le pensioni dei nonni, gli stipendi dei padri e la precarietà dei figli.

    C’è un filo conduttore molto profondo fra l’inchiesta del Messaggero Veneto sull’aeroporto di Ronchi dei Legionari, la campagna in difesa della città stellata che crolla, la proposta lanciata l’altro giorno di unire sotto un’unica regia i Comuni friulani patrimonio dell’Unesco (Cividale, Palmanova, Aquileia e Grado), le analisi sul futuro del porto regionale di Trieste-Udine, le nomine dei consorzi, la bufera giudiziaria sull’Aussa Corno, le denunce che il nostro giornale sta facendo sulle infiltrazioni mafiose in Friuli e le strategie di medio periodo che la Regione sta mettendo in pratica con le riforme e con la Finanziaria 2015.

    E cioè la necessità di mettere a fuoco due cose: la prima è quale futuro economico e commerciale abbiamo davanti, quale tipologia di produzione è destinata a morire e come può essere sostituita per garantire a questa terra un ritorno al benessere; la seconda è capire che già è complicato venirne fuori sulle nostre gambe, se poi i singoli centri di potere (politici, economici e sindacali) cercano di salvare un pezzettino in più del proprio potere anziché cederlo nel nome di un disegno collettivo, allora lo spirito di Attila che incendiò Aquileia riemergerà e per noi sarà difficile non guardare il nostro futuro come un futuro di declino.

    Scrivo questo perché visitare Aquileia e rendersi conto che a pochi chilometri da casa esiste un esempio così alto di storia e di cultura, legata proprio all’economia florida del Nord-est e delle rotte commerciali verso Oriente, fa riflettere sul tempo che perdiamo.

    Nel museo archeologico dell’antica capitale, proprio sulla via Giulia Augusta, c’è una sala dedicata alle monete. Se ne vedono di tutte le fogge, numismatica ma anche testimonianza di quanto ricco fosse questo territorio grazie alla vocazione di guardare a Est quando gli altri guardavano a Ovest. Poi, quando esci dalla sala, l’occhio ti cade su un dettaglio che fa venire la pelle d’oca. Appesa al muro c’è una carta geografica. Nulla di speciale. Indica i luoghi dove le monete esposte sono state ritrovate.

    Cos’ha di straordinario? Che tutti i puntini che segnalano gli scavi sono posti a Est di Trieste. E significa che, molti secoli fa, nei fatti si era attuato quell’export che oggi si fatica a tenere in piedi. Fa parte della nostra storia, ma anche della nostra naturale vocazione allo strabismo rispetto a un’Italia che ci considera piccoli perché non guarda oltre il confine con la ex Jugoslavia.

    È chiaro che oggi, per ritornare ad essere al centro della piattaforma logistica mediterranea (con il rilancio economico che ne consegue), non basta il porto romano e non bastano cinquanta metri di acqua navigabile. Serve che il sistema Trieste si apra finalmente verso Monfalcone e San Giorgio.

    Serve che il retroporto sia unito, servito da un’infrastruttura viaria e ferroviaria adeguata alle necessità di oggi, come velocità, come costi. Serve che i friulani e i giuliani si mettano a discutere di interessi comuni e smettano di farsi la guerra. Non nel nome dell’omologazione (mai e poi mai), ma proprio per liberare le risorse per essere più diversi e più specifici, ma perché vinciamo le guerre con la concorrenza di fuori e non sprechiamo più tempo e risorse a farci la guerra fra noi.

    Aquileia cadde anche per questo. Perché l’impero romano, a quel tempo, cominciò a combattere al proprio interno. Ogni esercito eleggeva un imperatore e intanto i barbari, fuori, penetravano verso le città e verso il cuore economico del sistema mediterraneo.

    Un po’ la metafora di quello che sembra succedere oggi. E per questo che ad Aquileia si vedono mura costruite con marmi mescolati a mattoni, con resti di sarcofago e anfore. Perché all’improvviso vengono demoliti secoli di ricchezze per ergere un muro contro Massimino il Trace. Un monito che vale anche per l’oggi, un monito per chi – nel nome del proprio orticello – spreca denaro e risorse per difendersi dal vicino di casa. E non si accorge, come denuncia invece il Procuratore capo di Trieste, che le cosche sentono odore di soldi e si insediano qui. Sarebbe il colmo che fossero i criminali a capire dove siamo. E cosa dobbiamo fare.

    ©RIPRODUZIONE RISERVATA

    14 dicembre 2014

     http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine