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Bubola: vi racconto undici militi ignoti

Il cantautore amico di De Andrè e il romanzo della Grande Guerra Una Spoon River che vuol rendere omaggio ai martiri senza croce

di MARIO BRANDOLIN

Il 28 ottobre del 1921 nella basilica di Aquileia una donna del popolo, Maria Bergamas, fu chiamata, a nome di tutte le madri che avevano perso i figli in guerra, a scegliere tra undici bare, contenenti le spoglie di militi non identificati provenienti dai diversi fronti, quella che, inumata al Vittoriano – oggi Altare della Patria – a Roma avrebbe ricordate tutte le centinaia di migliaia di soldati caduti in quella carneficina assurda che fu il primo confitto mondiale.

A far rivivere quelle giornate storiche, cariche di pathos, con milioni di italiani che seguirono il feretro lungo il suo viaggio in treno da Aquileia a Roma, un libro, “Ballata senza nome” (Frassinelli editore). L’ha scritto uno dei più importanti autori della musica italiana: Massimo Bubola. La cui poetica ha profondamente influenzato la scena musicale italiana. Basti qui ricordare il sodalizio con Fabrizio De André.

Con “Ballata senza nome” Bubola torna sulla Grande Guerra, dopo gli album Quel lungo treno, Il Testamento del Capitano, e Da Caporetto al Piave. In questa Ballata, nella quale reinventa le storie di quegli undici ignoti, disegna un quadro di più ampio respiro su un’umanità che tale rimase anche nelle condizioni più tragiche e disperanti. Undici intensi ritratti di uomini semplici che la guerra aveva strappato ai campi, al lavoro, alle famiglie e buttato in un’avventura di cui poco o nulla sapevano. Il libro si apre sulla figura di Maria, mater dolorosa cui il lutto ha insegnato a sentire le voci di coloro che non ci sono più. E davanti a ogni bara, come in una straziante Via crucis, quelle voci si fanno racconto.

«Non sono più ignoti – spiega Bubola –, anche se sono di mia invenzione. Un’invenzione assolutamente supportata da fiumi di testimonianze, lettura di epistolari, approfondimenti e ricerche negli archivi. Sono frutto della mia creatività ma su documentazione profonda».

Perché questo libro? «Ho cercato di rimediare a un’ingiustizia storica, quella dei morti senza croce e senza voce. Un’azione di misericordia verso questi umili: sono tutti soldati semplici. Per questo ho deciso di dare un nome al milite ignoto. Certo è azione arbitraria, però generosa, pietosa, dovuta. Del resto la poesia, perché volutamente ho usato un linguaggio poetico, qualcuno si è spinto a definirlo lirico, riesce a fare dei salti logici che la saggistica non può fare». Ogni ritratto è introdotto da versi di canzoni legate alla guerra, tradizionali o sue nuove composizione, come Verde su rosso. Che importanza ha avuto la musica in questo libro? «Le canzoni della guerra sono parte integrante del mio percorso, Andrea, a esempio, storia di un soldato in trincea, l’ho scritta a vent’anni. E poi queste canzoni fanno parte della cultura della mia famiglia. La bassa veronese e il Veneto dove sono nato e cresciuto sono intrisi della memoria della guerra. Le cui canzoni concludevano la grandi feste agresti che si facevano dalle mie parti e mio nonno che ha combattuto sul Piave e che era un patriarca, non riusciva mai a finire la Canzone del Monte Canino, e per non farsi vedere a piangere scappava in stalla. Queste canzoni sono parte integrante della nostra identità. Anche se oggi la musica popolare non gode di tanta attenzione e le viene preferita quella pop. Ma tra le due il rapporto è come quello tra semplicità e banalità, dove la semplicità è frutto della comprensione, la banalità del nulla».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

25 novembre 2017

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